Il rischio di passare per la questuante sottomessa e disposta a tutto pur di strappare un accordo era enorme. Ma per sua fortuna così non è stato. Il primo ministro britannico Theresa May è uscita con diverse buone notizie dall’incontro bilaterale con il neoeletto presidente statunitense Donald Trump. In una conferenza stampabreve rispetto a quelle assai più lunghe alle quali ci aveva abituato l’ex presidente Barack Obama, tutto è filato liscio: entrambi posati, forse anche cauti. Già, anche Trump che ha detto che Brexit è «una cosa meravigliosa», »una cosa fantastica», una «risorsa enorme» per il Regno Unito (la versione in lingua originale è stupendamente trumpiana: «wonderful thing», «fantastic thing», ma soprattutto «tremendous asset»). Tutto bene? «Insieme guideremo il mondo» hanno affermato i due fotografi al fianco del famoso busto di Winston Churchill, rimesso al suo posto alla Casa Bianca dal neoeletto presidente. Quindi torna l’Anglosfera? Sì, anche perché May è il primo leader mondiale ad incontrare Trump e questo ritorno rosso-bianco-bianco è testimoniato anche dai tempi dell’incontro, il più rapido nella storia della “special relationship” tra i due paesi come segnala il Times di Londra. I due si sono dati appuntamento a Londra entro la fine dell’anno, come annunciato in conferenza stampa.
Difesa ed economia sono i temi sui quali Theresa May, che per l’occasione ha riciclato lo stesso vestito indossato durante l’incontro con Barack Obama al G20 in Cina, è riuscita a strappare alcune garanzie che potrà sfruttare durante i negoziati per la Brexit con l’Unione Europea. Per Londra è fondamentale il ruolo degli Stati Uniti nella NATO, l’alleanza atlantica che Trump aveva definito poco tempo fa «obsoleta», in quanto a Washington spetta badare con costi altissimi agli alleati, di cui la maggior parte nemmeno riesce a rispettare l’obiettivo del 2% del PIL destinato alla difesa. In conferenza stampa, May ha detto che Trump sostiene la NATO al 100%; il biondo presidente non ha ribattuto, né ha confermato né ha negato. Chi tace acconsente. Trump ha solamente elogiato l’invito di May a tutti i membri della NATO ad impegnarsi per raggiungere il target del 2%. «Le relazioni tra USA e Gran Bretagna non sono mai state più forti», ha detto Trump al termine dell’incontro, dicendosi onorato della visita di Theresa May e promettendo sforzi per «rafforzare i legami economici tra i due Paesi».
I due, mano nella mano non solo sotto il colonnato della Casa Bianca (il Daily Mirror oggi titola «I wanna hold your hand», citando i Beatles seppur usando la forma americana di “want to”) ma anche nell’impegno a «ridare prosperità» ai loro popoli: «servono economie che funzionino per l’intero Paese, che mettano gli interessi della gente comune davanti a tutto il resto», ha dichiarato May. E se Trump dice che la Brexit sarà una «cosa meravigliosa» e che è pronto ad un accordo in tempi brevi, May ha ottenuto il massimo dall’incontro: dimostrare all’Unione Europea che non è andata a Washington per ingraziarsi il presidente statunitense ma per dimostrare che l’interesse oltreoceano è forte e che la Gran Bretagna esce e va verso lidi migliori.
Tutto perfetto? Non proprio. Gli Stati Uniti sono il primo partner per l’export britannico ma considerando l’UE un mercato unico le cose cambiano, come evidenzia questa grafica di Bloomberg.
Infatti l’esperto Gregor Irwin del Global Counsel mette in fila alcune ragioni per le quali secondo lui l’accordo USA-UK non sarà poi così rapido. Tra queste, l’impossibilità di Londra di firmare accordi prima dell’uscita dall’Unione Europea, la possibilità che Washington preferisca attendere che Londra ridefinisca gli accordi con il WTO come richiesto dalla stessa Organizzazione mondiale del commercio (e potrebbe volerci molto) ed il fatto che la Gran Bretagna rimanga comunque, nonostante Brexit, il ponte di collegamento tra gli Stati Uniti e l’UE.
L’incontro bilaterale di venerdì è stato preceduto da un’intervento del primo ministro britannico che ha parlato a Philadelphia di fronte ai vertici del partito repubblicano ribadendo l’importanza delle relazioni globali e dell’alleanza anglo-americana nel «nuovo mondo» e ha di fatto seppellito la dottrina di Blair a Chicagodell’internazionalismo interventista: «I giorni in cui la Gran Bretagna e l’America intervengono nei paesi sovrani nel tentativo di rifare il mondo secondo la loro immagine sono finiti». Primi risultati di questo? May ha invitato a ricucire con la Russia di Putin pur «stando in guardia» (ad ore è attesa la telefonata tra la Casa Bianca ed il Cremlino in cui Trump potrebbe annunciare la fine delle sanzioni), oggi incontrerà il presidente turco Erdogan ad Ankara e non sono previste dichiarazioni sui diritti umani in Turchia mentre il ministro degli esteri Boris Johnson riapre la porta al dittatore siriano Assad. Come ha scritto Mario Sechi su List,
Esportare la democrazia no, esportare le merci sì. Scindere le due cose non è affatto semplice, ma sono tempi in cui abbiamo visto il presidente della Cina, Xi Jinping, esaltare la globalizzazione e prendere gli applausi compiacenti dell’Homo Davos al World Economic Forum in terra svizzera.
Il futuro politico del Labour passa da Westminster, così come l’avvio della Brexit. Ma il futuro dalla Gran Bretagna potrebbe passare da Washington e da Trump con il ritorno dell’Anglosfera. Per dirla – di nuovo – con le parole di Sechi su List,
La relazione speciale tra l’Isola d’Inghilterra e le sue ex colonie diventate impero ritorna al centro di una serie di scambi di binario che condurranno a un nuovo disegno del sistema di relazioni internazionali. E il ruolo di Downing in questo nuovo Risiko sarà decisivo: gli inglesi sono ancora oggi un passaggio in Asia (il sistema finanziario di Hong Kong è di matrice inglese) e un ponte per il Medio Oriente (Londra è la residenza europea delle petromonarchie) su cui Trump potrà far viaggiare i convogli della sua diplomazia d’acciaio.
Questo articolo è stato pubblicato per l’edizione della newsletter “Fumo di Londra” di sabato 28 gennaio 2017. Ci si può iscrivere qui.
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